L’incontro tra la filosofia zen e la fisica quantistica non rappresenta solo una curiosa convergenza tra Oriente e Occidente, spiritualità e scienza. È invece l’opportunità di un dialogo profondo tra due visioni del mondo che, pur nate in contesti radicalmente differenti, hanno finito per interrogarsi, ciascuna a modo suo, sulle stesse domande fondamentali riguardo la realtà, la percezione, la coscienza. Il monaco zen cammina nei giardini di Kyoto. Il fisico si aggira, inquieto, nei laboratori di Ginevra. Entrambi cercano risposte, entrambi abbracciano il mistero. Il maestro Eihei Dōgen, nel XIII secolo, scrive nel suo “Shōbōgenzō” che “la Via è fondamentalmente perfetta e penetra il tutto. Ma chi la riconosce?” Alcuni secoli dopo, Niels Bohr, tra gli artefici della fisica quantistica, afferma: “Chi non rimane sorpreso dalla teoria quantistica, non l’ha davvero capita.” In queste due frasi affiora un’urgenza identica: la realtà non è mai come sembra a prima vista. L’apparenza tradisce, la verità si nasconde sotto il velo della consuetudine.
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