Il filo della sinopia che attraversa ogni pagina di questo testo di Jean Allouch è il filo della fragilità. Non un difetto da emendare, nessuna mancanza da riempire, ma il respiro stesso che tiene viva la psicanalisi. Allouch lo ribadisce senza esitazioni: ciò che è fragile non va rafforzato o irrobustito, va solo ascoltato. L’analisi vive proprio perché è fragile, muore quando pretende solidità e stabilità. Da tempo la psicanalisi si è caricata di pesi che non le appartengono: la lingua dura della psichiatria, con il suo linguaggio nosografico che trasforma i sintomi in etichette, i conflitti in diagnosi e gli uomini in visure da casellari, con le sue valutazioni e i suoi manuali; con l’ombra di una religiosità implicita che si traveste da etica per irrigidirsi in dogma; con l’ambizione di un’antropologia normativa, ovvero la tentazione di dire l’uomo, di stabilire universali sull’umano. Ma l’analisi, ricorda Allouch, nasce proprio dall’opposto: dal frammento, dall’accidente, dalla parola singolare.